Ex campo di prigionia di Servigliano diventa monumento nazionale
INTERVENTO IN AULA DELLA SENATRICE ROJC
Onorevoli Colleghi,
ringrazio la senatrice Segre per averci richiamato, col suo Disegno di Legge, al dovere di mantenere viva non solo la memoria, ma l’attenzione su ciò che è stato il Secolo breve e di cui la storia del Campo di prigionia di Servigliano ne raccoglie le tappe più significative. Una Via Crucis le cui stazioni non hanno variato il luogo, ma hanno segnato, invece, i destini delle persone.
La soglia che determina un luogo–non luogo, è stata ripetutamente varcata marcando destini già comunque segnati dalla storia e dall’orrore. Un luogo raccolto e pervaso dal dolore e dalla paura. Dalla consapevolezza del potente che vuole annientare il più debole. Ferendo per sempre quello che era il segno di umanità.
Quale diritto abbiamo noi di obliare?
“Di tutto questo non c’è più niente,” scrive Giovanni Raboni. “A me sembra che il male non è mai nelle cose …“
Non è nelle cose, certo. Ma i luoghi della memoria non sono più luoghi o cose raboniane che ci riportano indietro. I luoghi della memoria sono testimoni muti di ciò che è stato e che le nostre generazioni, quelle del Dopoguerra che non hanno prodotto una significativa memoria collettiva, hanno cercato di rimuovere.
Il campo di prigionia di Servigliano raccoglie la memoria delle ombre del Secolo breve che si impone oggi, ancora e sempre, “come necessità, per respirare”, direbbe Edith Bruck. Necessità di cui testimoniano la Risiera di
San Sabba a Trieste, ma anche luoghi non ancora riconosciuti come parte inscindibile della nostra memoria: i lager del Duce, i campi per i militari, quelli per gli ebrei, per i profughi di ieri e di oggi, quelli per gli oppositori ai regimi totalitari.
Non illudiamoci che sono cose lontane o che non possono più accadere. Non illudiamoci che l’uomo abbia imparato: quello che è successo a Servigliano è reale, fa parte di un passato prossimo a noi, a questo nostro modo di intendere l’esistenza nel segno di un edonismo privo di valori che la pandemia ha fatto emergere con prepotenza. Siamo scivolati verso un sistema che vuole far dimenticare ai più le pagine nere della nostra storia, sostituirle con l’illusione che oggi sia il tempo del futuro. Ma è il passato a determinare il futuro. Non c’è futuro senza una presa di coscienza oggettiva, di cui le Istituzioni devono sottenderne l’importanza, e senza la coscienza soggettiva che deriva dalla conoscenza.
E’ determinante che quest’Aula definisca questa discussione dialogando con “i Mani di coloro che non sono tornati”, come scrive il triestino Boris Pahor che ha conosciuto il Novecento in tutte le sue sfaccettature più buie, dal fascismo alla deportazione e fino alla denuncia forte e indelebile, nel 1975, degli eccidi del Dopoguerra, che gli sono costati il bando dalla Jugoslavia, a lui e alle sue opere.
Illuminante ciò che scrive Primo Levi sul lager che “è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo … il disconoscimento della solidarietà umana, l’indifferenza ottusa o cinica per il dolore altrui, l’abdicazione dell’intelletto e del senso morale davanti al principio d’autorità, e principalmente, alla radice di tutto, un marea di viltà, un viltà abissale, in maschera di virtù guerriera, di amor patrio e di fedeltà a un’idea”.
La delega alla testimonianza non più dunque essere una mera questione dei testimoni, perché, allora la memoria è condannata a morire quando verranno meno coloro che possono ancora parlare in prima persona.
Ma è lo Stato, invece, a dover avere la responsabilità della memoria, che è di tutti. Perciò sosteniamo fortemente la proposta della senatrice Segre di istituire il Museo nazionale del campo di prigionia di Servigliano che segnò il destino di donne e di uomini dalla Grande Guerra e fino agli anni Cinquanta facendo nostre le parole di Elie Wiesel:
“Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quando Dio. Mai.”
Tatjana Rojc